The Italian Wife

London explained by a very Italian villager adopted by a very multiethnic family

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Lutto in poche parole (nel vento)

August 26, 2023 by Daria Simeone

Con mamma ci parlo nella mia testa. Sono parole che non vengono dette e proprio per questo a volte ho paura che si perdano nel vento.

A volte immagino che mi chiami, Dadá, sento la sua voce quando ho bisogno di sentirla. Altre volte ho bisogno di qualcosa di più e mi metto nel letto, mi immagino lei che si siede accanto a me, di lato, coi piedi quadrati per terra a darmi la schiena, senza guardarmi. Quando lo faceva, quando sapeva che ne avevo bisogno, sembrava che stesse prendendo posizione meticolosamente, la solita, come fosse un lavoro preciso da fare in quella posizione sempre uguale. Abbassava leggermente la testa e iniziava a farmi toc toc con la mano sul culo. Mi addormentavo.

L'ha fatto così tante volte che mi viene facile immaginarla anche ora, ed è bello, ma alcune volte è troppo, non so dove mi porterà quel ricordo così vivido e lo interrompo con un pianto.

“Lutto” l'ho sempre trovata una parola difficile, quasi ostile, che non lascia spazio.

Una conversazione a senso unico che avviene solo nella testa, da dove le parole non riescono ad uscire.

Una coccola che ti fa piangere invece di farti addormentare.

Una domanda - com'è che hai scelto di chiamarmi Daria? - che non può avere una risposta.

Lutto è una sentenza, una punizione nel suono stesso della parola. Mamma invece la usava con affetto, gli attribuiva un valore di rispetto. "Sei a lutto, non ti sforzare di fare quello che non ti senti di fare" diceva alle sue amiche che avevano perso qualcuno. 

Quando all'inizio di luglio siamo tornati ad Avellino da papà, le bimbe hanno iniziato a raccogliere i soffioni nell'aria. Quelli che sembrano fiocchi di neve pelosi e volano veloci sospinti dal vento perché non hanno peso. Non ho mai capito da dove vengano e dove vadano a finire.

Mia e Viola un giorno mi hanno detto che sono i messaggi di nonna. Le sentivo che ci parlavano brevemente, dopo averli afferrati nel vento, per poi lasciarli andare di nuovo. 

Sono due mesi che si inventano i messaggi di mamma, che chiede proprio le cose che chiedeva sempre: "oggi vedete Emma?" " vi siete divertiti al Tibidabo?" "Che avete fatto per il compleanno di daddy?"

Loro rispondono ad alta voce, con la bocca vicino al soffione, e poi lo lasciano andare fino a lei.

A volte passano il soffione a me o a papà nel caso abbiamo qualcosa da dirle anche noi. 

Io le ho detto che Mia è diventata alta quasi quanto me, che Viola non canta più solo le canzoni rap col vocione, ma ha imparato a fare la voce sottile e dolce. Le ho detto che un'altra mamma chiamerà sua figlia Daria dopo aver letto di noi due. 

Mi sembra che quelle parole non si perdano più, che abbiano finalmente trovato una destinazione.

È bello, ma a volte è troppo e mi devo fermare. E poi mi arriva un suo soffione: “Sei a lutto ammamma, non ti sforzare di fare quello che non ti senti di fare”. 





Mourning, beyond words

I talk to Mum in my head. They are words that are not spoken and that is why sometimes I am afraid they are lost in the wind.

Sometimes I imagine her calling me, Dadá, I hear her voice when I need to hear her. Other times I need something more and I get into bed, I imagine her sitting beside me, sideways, her square feet on the floor with her back to me, without looking at me. When she did this, when she knew I needed it, she seemed to be meticulously taking her position, the usual one, as if it were a precise job to do always in that same position. She would lower her head slightly and start patting me on my ass with her hand. I would fall asleep.

She did it so many times for me that it's easy to imagine her even now, and it's nice, but sometimes it's too much, I don't know where that memory will take me and I interrupt it with a cry.

Lutto, ‘Mourning' in Italian, I have always found it to be a difficult, almost hostile word that leaves no room.

A one-way conversation that only happens in the head, from where words cannot get out.

A cuddle that makes you cry instead of putting you to sleep.

A question, how come you chose to call me Daria?, that cannot be answered.

Lutto is a sentence, a punishment in the very sound of the word. Mum, on the other hand, used it with affection, she attributed a value of respect to it. 'You are mourning, don't force yourself to do what you don't feel like doing,' she would tell her friends who had lost someone.

When we returned to Avellino at the beginning of July to stay with my dad, the girls started to pick up the flying dandelions in the air. The ones that look like snowflakes and fly fast on the wind because they have no weight. I have never understood where they come from and where they go.

Mia and Viola told me one day that they were nonna’s messages. I could hear them talking to the fluffy things briefly, after catching them in the wind, and then letting them go again.

They have been making up messages from mum for two months now, where she asks the very things she always used to ask: "Are you seeing Emma today?" "Did you have fun at Tibidabo?" "What did you do for daddy's birthday?"

They answer out loud, with their mouths close to the flying flower, and then let it go to her.

Sometimes they pass the ‘messages’ to me or my dad in case we have something to tell her too.

I told her that Mia has grown almost as tall as me, that Viola no longer just sings rap songs but has learned to sing with a thin sweet voice. I told her that another mother will call her daughter Daria after reading about us.

I feel like those words are no longer lost, that they have finally found a destination.

It feels good, but sometimes it is too much and I have to stop. And then I get a dandelion from her: you're in mourning, child, don't force yourself to do what you don't feel like doing.





August 26, 2023 /Daria Simeone
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Chi lotterà al tuo posto quando non ci sarai più?

June 19, 2023 by Daria Simeone

Da poco mi è capitato di risentire la storia dei 21 grammi, il peso dell’anima. Il titolo di quel film. Forse in una serie tv ne parlavano, a proposito di qualcuno che non c’era più.

Dove vanno a finire quei 21 grammi? Evaporano?

Quando l’anima in questione apparteneva ad una persona che riempiva la tua vita, tutti i tuoi giorni, di amore ma anche di ansia, paranoie, preoccupazioni, il vuoto che lascia non può pesare solo 21 grammi.

A volte immagino l’anima di mamma che vola in cielo, in questo paradiso senza pareti e senza pesi, tra nuvole fatte di cassata siciliana e cascate di latte condensato, un posto luminoso pieno di cineforum impegnati, ma anche di tv che mandano in loop Un Posto al Sole e Poirot, ecco mettiamo che la sua anima sia lì, leggera e spensierata a leggere libri e a guardarci vivere dall’alto in basso.

Ma dove finiscono invece tutte quelle ansie, paranoie, preoccupazioni che ci dedicava? Dove va tutta quella cura? Come può, qualcosa che ti ha preso tanto spazio e tempo in vita, evaporare da un momento all’altro come se non fosse mai esistito, come se non fosse servito a niente?

Mia madre era una unità di crisi sempre aperta, sempre in linea. Al telefono, di persona, per posta. Lei ti cercava, a volte ti perseguitava chiamandoti nei momenti più sbagliati, lei ti vedeva anche da lontano, ti controllava nel senso migliore del termine, dedicandoti una parte della sua ansia, delle sue preoccupazioni, ogni giorno. Perché per lei eri importante, eri nei suoi pensieri (apocalittici).

Dove è finita tutta quell’ansia e quella cura? Dove sta? A cosa è servita? Quanto pesa?

 

La scorsa settimana mia sorella era a casa dei miei e nella posta ha trovato una lettera indirizzata a mamma.

Una lettera di Amnesty International per la signora Enrica Rocco. Una delle tante associazioni che mamma sosteneva insieme a papà per continuare a sentirsi parte di piccole battaglie quotidiane.

Ogni volta che adottava un bambino a distanza ci faceva vedere le sue foto o ci leggeva le sue lettere di ringraziamento. Io pensavo sempre che fossero truffe accompagnate da finte lettere prestampate. Ma lei no, ci credeva e quindi non le dicevo nulla. Li vedeva anche da lontano quei bambini. Dedicava loro tempo e denaro, ma soprattutto pensieri e preoccupazioni.

 

“Chi lotterà al tuo posto quando non ci sarai più?” c’era scritto in quella lettera di Amnesty.

 

“Cazzo, col conto corrente bloccato nessuno sta pagando la quota ad Amnesty” ho pensato.

E invece no, quella lettera prestampata era solo una coincidenza.

Papà ci aveva già pensato, ad Amnesty e a tutte le loro piccole battaglie per posta, compresi i bambini. Come Maura ha pensato a far sopravvivere le sue piante. Come chiunque l’ha amata, portando avanti le proprie battaglie, porta avanti anche quelle di Enrica Rocco.

La preoccupazione e la cura non evaporano come quei 21 grammi, né finiscono in un paradiso di latte condensato dove nulla ha peso, da dove il mondo si può solo guardare dall’alto in basso.

Ma restano in questo mondo ed è bello sapere che il loro peso, qualunque esso sia, lo porta chi resta, nel nome di chi non c’è più.

Who will fight in your place when you are gone?

I recently came across the story of 21 grams, the weight of the soul. The title of that film. Maybe in a TV series they talked about it, about someone who was no longer there.

Where do those 21 grams go? Do they evaporate?

When the soul in question belonged to a person who filled your life, all your days, with love but also with anxiety, paranoia, worries, phone calls, the emptiness they leave behind cannot weigh just 21 grams.

Sometimes I imagine Mum's soul flying in the sky, in this paradise without walls and without weights, among clouds made of Sicilian cassata and waterfalls of condensed milk, a bright place full of film festivals, but also of TVs that loop Un Posto al Sole and Poirot, let's say that her soul is there, light and carefree, reading books and watching us live from above.

Where did all that care go? How can something that has taken up so much space and time in your life evaporate from one moment to the next as if it never existed, as if it served no purpose?

My mother was a crisis unit always open, always on the line. On the phone, in person, via mail. She was always looking for you, sometimes stalking you by calling at the wrong times, she would see you even from afar, she controlled you in the best sense of the word, dedicating a part of her anxiety, her worries, to you every day. Because you were important to her, you were in her (apocalyptic) thoughts.

Where has all that anxiety and care gone? Where is it? Did it make any difference? How much does it weigh?

Last week my sister was at my parents' house and in the mail box she found a letter addressed to Mum. A letter from Amnesty International for Mrs Enrica Rocco. One of the many associations that mum supported together with dad to continue to feel part of small daily battles.

Every time she adopted a child via post she would show us photos of him/her or read us their thank-you letters. I always thought they were scams accompanied by fake pre-printed letters. But she didn't, she believed it and so I didn't tell her anything. She would see those children even from afar. She devoted time and money to them, but mostly thoughts and worries.

"Who will fight in your place when you are gone?" was written in that Amnesty letter.

'Shit, with the blocked bank account no one is donating to Amnesty' I thought. But no, that pre-printed letter was just a coincidence.

Dad had already thought about it, about Amnesty and all their little battles from afar, including the children. Like Maura did, adopting her plants. Like everyone who loved her, who, in carrying on their own battles, also carries on those of Enrica Rocco.

The care and concern do not evaporate or end up in a condensed milk paradise where nothing has weight, from where the world can only be looked down upon.
But they remain in this world and their weight, whatever it may be, is carried by those who remain, in the name of those who are no longer there.

June 19, 2023 /Daria Simeone
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Lingua Madre

June 08, 2023 by Daria Simeone

Mia ha iniziato un diario.

“Brava! E in che lingua lo scrivi ammamma?”

“In inglese… Scusa mamma”.

 

Mia ha ormai l’età della coscienza e mi chiede giustamente scusa. Sa che il fatto che abbia scelto come prima lingua una lingua (per me) straniera mi fa incazzare.

Una lingua è molto di più di una lingua. E’ il modo in cui chiamiamo il mondo. Il modo in cui lo vediamo. Dicono sia anche il modo in cui lo sogniamo.

 

Ricordo quando tornai dalla mia prima esperienza all’estero, nel 1996. Avevo appena compiuto 18 anni e prima di partire un mio professore mi disse: una lingua la possiedi davvero solo quando inizi a parlarla anche nei sogni.

Non so se mi feci suggestionare o cosa, ma dopo due settimane immersa nelle foreste della Germania iniziai a sognare in tedesco.

 

Oggi di quella lingua ricordo a fatica delle frasi smozzicate: "Ich möchte nach hause (gehen?)", in compenso sono costretta per questioni geo-familiari a parlare altre lingue straniere tutto il giorno. Inglese con marito: “What’s wrong?” e cane: “Sit, sit, I said sit down!”, spagnolo con i vicini: “Hola Maria, gracias por la lechuga”, a scuola delle bambine dove: “Buenos dias, que tal?” dico ai genitori che incontro quando le accompagno, anche se tutti mi rispondono “Adios” e quindi mi sa che qualcosa ancora mi sfugge.

Ma nei sogni no, nei sogni parlo solo in italiano. E con le mie figlie.

“Non c’è bisogno di chiedermi scusa ammamma, lo so che l’inglese è più facile, ma tu in che lingua sogni?”

 

Questo mio piccio infantile sulla lingua viene da lontano, temporalmente parlando, e da vicino, sentimentalmente parlando. Credo sia una delle mie battaglie personali nel nome di mia madre.

Fino ai 2 anni di età Mia e Viola non parlavano quasi per niente italiano, nonostante me, i nonni, la zia. Soprattutto nonostante quella nazionalista di mia sorella e nonostante mia madre, italianista integralista, professoressa d’italiano, monolingue (a parte il dialetto), in sintesi paladina risoluta della, di nome e di fatto, Lingua Madre.

“Traduciiiiii” mi urlava mamma quando Mia e Viola duenni le parlavano in inglese.

“Non capisco un cazzo, che sta dicendo?” si offendeva.

“Dovete parlarmi in I-TA-LIA-NO” diceva alle nipotine contro le quali aveva intrapreso un’offensiva linguistica a colpi di libri della Pimpa e filastrocche di Rodari.

Oggi Mia e Viola parlano italiano. A volte papà si complimenta persino per un vocabolario forbito, come quando Viola dice “ho appreso” o “letteralmente”, senza sapere che in realtà fa solo dei calchi dallo spagnolo o dall’inglese.

Più che dai libri, credo che abbiano imparato l’italiano dalle canzoni trappane che mia sorella gli faceva ascoltare, “Muovi al tempo la mano, sono il tuo Capitano” e dalle canzoncine senza senso che mamma cantava per loro.

“Farfallina rossa e bianca vola vola vola, mai si stanca”.

“Lola, cosa impari a scuola? Manco una parola, sai di Charleston”.

“Sette le scodelle sulla tavola del re, dentro cosa c’è solo un chicco di caffè”.

Ma anche “Bang bang, io sparo a te, bang bang, tu spari a me”.

Le cantiamo ancora, prima di andare a dormire.

“Io sogno in tutte le lingue, ma quando sogno nonna parlo sempre in italiano” mi ha risposto Mia, forse per farmi contenta.

E io che mamma non l’ho ancora sognata, ci voglio credere e nell’attesa canto con loro. Perché alla fine una lingua è molto più di una lingua da usare in un diario o nei sogni. E’ anche il modo in cui rivivi i ricordi ad occhi aperti. E’ trovare le parole per dire quello che senti, ma anche ricordare le parole che ti hanno fatto sentire amata.

“Ninnananna mamma tienimi con te, nel tuo letto grande solo per un po’. Una ninnananna io ti canterò e se ti addormenti mi addormenterò.”

E’ come tornare a casa.

Mother Tongue

Mia started a journal.

 "Great! What language do you write it in?"

"In English. Sorry mum."

Mia is now at the age of conscience and rightly apologises to me. She knows that the fact that she chose a (for me) foreign language as her first language pisses me off. A language is much more than a language. It is the way we call the world. The way we see it. They say it is also they way you dream it.

 

I remember when I came back from my first experience abroad in 1996, when I had just turned 18, and before I left, a teacher told me: you only really own a language when you start speaking it in your dreams.

Today, I can hardly remember a few mangled sentences of that language: "Ich möchte nach hause (gehen?)", but on the other hand I am forced by geo-familiar issues to speak other foreign languages all day long. English with husband: "What's wrong?" and dog: "Sit, sit, I said sit down!", Spanish with neighbours: "Hola Maria, gracias por la lechuga", at the girls' school where: "Buenos dias, que tal?" I say to the parents I meet when I drop them off, although they all reply "Adios" and so I guess something still eludes me.

But not in my dreams, in my dreams I only speak in Italian. And with my daughters.

"There is no need to apologise to me Mia, I know English is easier, but what language do you dream in?”

This childish whim of mine about language comes from afar, temporally speaking, and from very close by, sentimentally speaking. I think it is one of my personal battles in the name of my mother.

Until they were 2 years old, Mia and Viola spoke almost no Italian, in spite of me, her grandparents, her aunt. Above all, despite my nationalist sister and my mother, a fundamentalist Italianist, teacher of Italian, monolingual (apart from dialect), in short, a resolute champion of the Mother Tongue, in name and in fact.

"Translate!!!!” She would shout at me when Mia and Viola, aged two, spoke to her in English. "I don't understand a fucking word, what are they talking about?" she would take offence.
"You have to speak to me in I-TA-LIA-NO," she would tell her granddaughters against whom she had embarked on a linguistic offensive by means of Italian storybooks and Rodari's nursery rhymes.
Today Mia and Viola speak Italian. Sometimes my dad even compliments them on their polished vocabulary, as when Viola says 'ho appreso' or 'letteralmente', not knowing that in reality she is only copying from Spanish or English.

Rather than from books, I think they have learnt Italian from those cheap songs my sister would play: “Muovi al tempo la mano, sono il tuo Capitano” and from nonsense rymes that Mum used to sing to them.

'Farfallina rossa e bianca vola vola, mai si stanca'.

“Lola, cosa impari a scuola? Manco una parola, sai di Charleston”.

“Sette le scodelle sulla tavola del re, dentro cosa c’è solo un chicco di caffè”.

But also “Bang bang, io sparo a te, bang bang, tu spari a me”.

We still sing them, before going to sleep.

"I dream in all languages, but when I dream of Grandma I always speak in Italian," Mia replied, perhaps to make me happy.

And I, who still haven't dreamt of Mum, want to believe it and while I wait for her I sing along with them.
In the end, a language is much more than a language to use in your journal or in your dreams. It is also the way you relive memories with your eyes open. It is finding the words to say what you feel, but also remembering the words that made you feel loved.

“Ninnananna mamma tienimi con te, nel tuo letto grande solo per un po’. Una ninnananna io ti canterò e se ti addormenti mi addormenterò.”

It's like a journey home.

June 08, 2023 /Daria Simeone
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Nei tuoi panni

May 14, 2023 by Daria Simeone

Venerdì sera le bimbe sono andate a dormire da un’amica fuori Barcellona.

Io e il padre un secondo dopo averle salutate:

Allora che ti va di mangiare? Usciamo? Pizza take away e ci guardiamo qualcosa di nuovo? Birretta? Vinello? Apro i Fonzies? Ohhh e finalmente stanotte si dorme!

E invece il solito dio delle città e della siccità ci ha mandato nell’ordine: diluvio universale, mal di testa, nausea, notte insonne.

Sabato sera siamo andati a riprenderle. Erano state brave. “Sono così educate le tue bambine”. Prima di uscire di casa metto il vestito blu di mamma, anni 20, ricamato a mano, bellissimo. Non lo metteva da mezzo secolo forse ma lo conservava preziosamente. Usciamo.

Da casa alla metro piove. Ripenso all’insonnia mentre il vestito si bagna.

“Cazzo potevo approfittare finché non c’erano le bimbe e fare un pisolino”. “Fortuna che sono brave, amori di mamma”.

“Mi sono mancate, dove le porto a mangiare stasera?”

Quando arriviamo Zi rimane in macchina con il cazzodicane e io entro a recuperare le brave bambine. Viola in versione The Ring con frangetta fino al mento era attaccata alla nonna della sua amica e la chiamava abuela, aveva raccolto il solito sacchetto di munnezza assortita fatta di legnetti, lumache, molle metalliche e aveva preparato 8 palloncini da portarsi via. “Si sono comportate benissimo, sono due amori” mi dice l’abuela. Dico a Viola che non c’è spazio in auto per 8 palloncini e si trasforma definitivamente in Samara Morgan.

Mia in versione Alice nel Paese delle Meraviglie con capelli crespi sotto effetto di funghi allucinogeni vaga su e giù per tre piani di casa cercando le sue cose da rimettere in valigia. 55 minuti dopo siamo ancora lì, Viola posseduta, Mia che ancora non trova lo spazzolino. Intanto la madre dell’amica, l’abuela e un’altra madre di non so bene chi, mi guardano con lo sguardo della pietà mentre cerco Viola per tre piani di casa perché si è nascosta.

“Mia, ma cosa stracazzo stai facendo ammamma?” “Find your sister NOW” le intimo con la voce strozzata in gola delle minacce di morte, alternando italiano e inglese nella speranza che questo confonda il pubblico giudicante e non faccia percepire la tragedia greca imminente.

Sorrido a madri e abuela, mentre immagino me stessa uscire finalmente dalla porta trionfante, facendo un doppio strascino nel mio vestito blu ricamato, con i capelli di Mia in una mano e di Viola nell’altra. “Adiooooos y gracias por todo!”.

Finalmente dopo oltre un’ora siamo in macchina, con gli 8 fottuti palloncini.

“Ma quali cazzo di brave bambineeeee? Ma con chiiiiii? Siete delle scostumate ingrateeeeeeeee!” inizio il mio assolo contro le mie figlie mute mentre mio marito guida senza avere idea di cosa cazzo parlo, visto che nell’ultima ora è stato chiuso in macchina a mandarmi reels su come educare i cani su Instagram.

Piango. “Stai attenta a non essere troppo dura con Mia”. Risento la voce di mamma quando faceva la nonna.

Piango più forte: “Perché cazzo mi dovete riservare sempre il peggio di voi?!”. Risento la voce di mamma quando faceva la mamma, quando la facevamo incazzare come un’ape, quando non ci nascondeva le lacrime né la rabbia. Non ci nascondeva il dolore e la stanchezza. Quando si alzava da tavola e andava a finire di mangiare in salone perché non ci sopportava più. Mi asciugo le lacrime mentre sento che di lei, alla fine, non porto addosso solo un vestito blu ricamato coi corallini.

“Scusa mamma”. “Scusa”. “Ci perdoni?” mi ripetono le bambine dal sedile posteriore. Risento la mia voce da piccola e ricordo quanto fosse importante per me avere quel perdono, quanto fossero sinceramente disperate quelle scuse.

Ricordo quanto fosse bello fare pace.

“Certo ammamma, siete due stronze ma vi perdono”. 

May 14, 2023 /Daria Simeone
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Un chiringuito non fa Primavera

March 17, 2023 by Daria Simeone

Mi stava parlando questa mia amica lontana lontanissima della geografia emozionale, una materia che non ho mai studiato ma in cui credo di meritarmi almeno un 6+ dopo 28 anni da quando ho lasciato la mia casa da bambina e ho iniziato a disegnare una mappa fatta di separazioni dolorose, innamoramenti passeggeri, amicizie sconfinate, case da smontare e impacchettare, pasta al burro, cibo troppo speziato, cibo troppo fritto, troppo cibo.

 

La vastità di ogni luogo fisico, le sue misure reali, sono state ridefinite dalle mie emozioni vissute in quei luoghi (o a volte dal livello di reflusso gastroesofageo), come una mappa assolutamente arbitraria che non risponde a nessuna latitudine e longitudine se non all'intensità di quello che vi ho vissuto (ulcere incluse). 

 

A Barcellona sono arrivata otto anni fa oggi. È uno di quei luoghi diventati enormi perché riempiti di tanti sentimenti, incontri, olive e pan con tomate.

Un luogo nuovo ma in cui ho amici conosciuti durante la mia adolescenza ad Avellino, o a Londra, ex fidanzati, Pannocchie del Mulino Bianco, Fonzies, insomma un luogo che è sempre stato vicinissimo, geograficamente, gastroenterologamente e sentimentalmente parlando, a quella casa che ho lasciato a 18 anni.

Poi un giorno di dicembre, all'improvviso Barcellona è diventata lontanissima, l’ho lasciata di corsa in un viaggio verso casa che è durato una vita, letteralmente la mia vita.

Mai volo è stato più puntuale, mai ho sentito di essere così in ritardo.

Anche le stagioni sono un po’ così, arbitrariamente iniziano e finiscono quando sentiamo che è arrivato il loro tempo.

Qualche giorno fa leggevo che la primavera, che va dal 21 marzo al 21 giugno in questa parte di mondo, nell’uso dei meteorologi, invece, va dal 1° marzo al 31 maggio.

Nella mia casa a Siena, invece non iniziava prima di maggio, quando il prezzo delle fragole scendeva e anche noi, studentesse di giorno e sguattere di sera, potevamo comprarle.

A Londra iniziava quando fiorivano le magnolie (per poi essere ricoperte di neve due settimane dopo).

A Barcellona la primavera arriva insieme ai chiringuito sulla spiaggia. L’ultimo giorno di febbraio iniziano a montarli e non importa quanto sia ancora inverno nel tuo cuore, quello è l’inizio della primavera. Li aspetto ogni anno, come una cura, assolati e decadenti come un lido di Cesenatico senza il jukebox, pronti a farmi dimenticare un brevissimo inverno.

Quest’anno non la aspettavo la primavera, non lo volevo dimenticare questo lunghissimo inverno.

Non la voglio la primavera senza di te mami. Come Mia che mi ha detto “Non mi piace cantare senza nonna”, mettendo il broncio al concerto che ha fatto al Palau de la Musica.

Com'era? Fermate ‘sta giostra che vogliamo scendere? Ecco.

Cazzo è che tutto è come sempre, che arriva la primavera come se niente fosse, senza che tu mi possa dire: ah finalmente Dadà le giornate si allungano? Che mi torna il reflusso senza che tu ti raccomandi di prendere l’omeoprazolo che l’esofagite si acuisce col cambio di stagione ammamma? Come osano aprire i chiringuito dove non ci possiamo più prendere un caffè insieme a 3,50 commentando “è sciut ‘e cap”?

Il signore che legge il giornale nella doccia della spiaggia Somorrostro è sempre là, le vecchie ciuotte che si fanno il bagno nude sono sulla solita panchina alle 8 di mattina a rivestirsi, il gigante che porta in mano la sua bambina, il rasta che scolpisce dragoni di sabbia, il nonno che parla col suo cane nano. Ogni mattina mi sembra di attraversare una storia che so a memoria ma in cui manca il personaggio principale.

Una sera di qualche settimana fa ho iniziato a raccontarla alle bambine questa storia, rimettendoci te dentro con tutti questi personaggi che vedo ogni giorno. Un’operazione magica più che letteraria per sfidare il tempo e lo spazio e far diventare le stagioni del cuore e la geografia emozionale le assi attorno a cui gira la nostra nuova vita senza di te.

Ho riavvicinato un po’ Barcellona al mio cuore e mi sono ripresa un po’ di Primavera.

Tu sei diventata una specie di supereroe detective che risolve misteri, può attraversare i mondi e parlare ad oracoli centenari (zietta che, come dicevi tu, ci sotterrerà tutti).

Le bimbe aspettano ogni sera una nuova avventura. E io più di loro, sperando che a un certo punto, tra un mistero e l’altro da risolvere, ti ricorderai di dirmi qualcosa sul mio reflusso.






A chringuito doesn’t make Spring

This far-away friend of mine was telling me about emotional geography, a subject I have never studied but in which I believe I deserve at least a 6+ after 28 years since I left my childhood home and started drawing a map made up of painful separations, transient falling in love, boundless friendships, houses to be dismantled and packed up, pasta with butter, over-spiced food, over-fried food, too much food.

The vastness of each physical place, its actual dimensions, have been redefined by my emotions experienced in those places (or sometimes by the level of my gastroesophageal reflux), like an absolutely arbitrary map that does not respond to any latitude or longitude other than the intensity of what I experienced there (ulcers included).

I arrived in Barcelona 8 years ago today. It is one of those places that has become enormous because it is filled with so many feelings, encounters, olives and pan con tomate. A new place but where I have friends I met during my adolescence in Avellino, or in London, ex-boyfriends, Mulino Bianco cookies, Fonzies, in short, a place that has always been very close, geographically, gastroenterologically and sentimentally speaking, to that house I left at 18.

Then one day in December, suddenly Barcelona became very far away, I left it in a hurry on a journey home that lasted a lifetime, literally my life. Never has a flight been more punctual, never have I felt I was so late.

The seasons are a bit like that too, they arbitrarily begin and end when we feel their time has come. A few days ago I read that spring, which runs from 21 March to 21 June in this part of the world, in the use of meteorologists, instead runs from 1 March to 31 May.

In my house in Siena, however, it didn't start until May, when the price of strawberries dropped and even we, students by day and underpaid waitresses by night, could buy them.

In London it started when the magnolias bloomed (only to be covered in snow two weeks later). In Barcelona, spring arrives along with the chiringuitos on the beach. On the last day of February they start putting them up and no matter how much winter is still in your heart, that is the beginning of spring. I wait for them every year, like a cure, sunny and decadent like a lido in Cesenatico without the jukebox, ready to make me forget a very short winter.

This year I did not wait for spring, I did not want to forget this very long winter. I don't want spring without you, mami. Like Mia who told me "I don't like singing without grandma", pouting at the concert she did at the Palau de la Musica.

Stop this merry-go-round that we want to get off. What the hell is it that everything is like always, that spring arrives as if nothing had happened without you being able to say to me: ah finally Dadà, days are longer? That my reflux comes back without you recommending that I take homeoprazole coz oesophagitis gets worse with the change of season? How dare they open the chiringuitos where we can no longer have a coffee together for 3.50 euro, commenting 'are they mad'?

The gentleman reading the newspaper in the shower at Somorrostro beach is always there, the old women swimming naked are on the usual bench at 8am getting dressed, the giant carrying his little girl, the dreadlocked man sculpting dragons out of sand, the grandfather talking to his dwarf dog. Every morning I seem to walk through a story that I know by heart but in which the main character is missing.

One evening a few weeks ago, I started telling the girls this story, putting you back into it with all these characters I see every day. A magical rather than literary operation to challenge time and space and make the seasons of the heart and emotional geography the only axes around which our new life without you revolves.

I have brought Barcelona a little closer to my heart and I have taken back a bit of Spring.

You have become a kind of superhero detective who solves mysteries, can cross worlds and talk to centenarian oracles (Zietta who, as you said, will bury us all). The girls are waiting for a new adventure every night. And me more than them, hoping that at some point, in between mysteries to solve, you will remember to tell me something about my reflux.





March 17, 2023 /Daria Simeone
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