La giusta distanza. (E la nostalgia di quando il problema erano i pidocchi).
Quando a marzo sono state chiuse le scuole, una mamma nella chat della classe ha mandato un messaggio che diceva più o meno così: se non altro a sto giro riusciremo a toglierci dai coglioni i pidocchi.
All’epoca mi era sembrata una prospettiva di cambiamento rivoluzionaria.
Considerando che se oggi guardo film in cui la gente entra in un bar senza mascherina, inizio a urlare alla televisione come mia zia centenaria: “aò ma dove cazzo vai?”, ecco i pidocchi sono l’ultimo dei miei pensieri.
Negli ultimi 25 anni lontano da mamma e papà mi sono sempre compiaciuta dell’idea di aver messo tra di noi la giusta distanza.
Quella giusta, pensavo, è quella che in 2 ore di volo mi riporta tra le braccia di mamma e da papà, che ancora mi dice “che occhioni belli che tieni appapà”. Che riporta le mie figlie dalla loro zia Au, che riporta le mie ipocondrie dal mio fidato medico della mutua di Avellino.
Eppure negli ultimi 12 mesi ho rivisto i miei soltanto per 14 bellissimi giorni passati in riva al mare, sotto l’ombra di pini secolari e profumati. Due settimane di libertà in un posto qualunque che adesso mi sembra il posto più bello del mondo.
La distanza è diventata una delle cose più ingiuste e la spocchia da espatriata-che-ha-capito-tutto-della-vita andando a vivere a Barcellona si è trasformata in una regressione infantile in cui Avellino è la terra promessa, guardare la Ghigliottina dell’Eredità con mamma il momento più atteso della giornata, e fare un giro in macchina con mia sorella e lamentarci che (sempre ad Avellino) non c’è un cazzo da fare è il divertimento più grande che possa ricordare.
Dopo aver pensato per una vita di essere cittadina del mondo ho imparato che, gira e rigira, sono proprio di Avellino e che sono ancora una bambina che dormirebbe con la luce accesa se fosse socialmente accettabile a 42 anni.
Però ho aspettato, e nel frattempo ho scoperto che so aspettare.
(E mamma ha scoperto che può mandarmi su whatsapp le foto delle parole della Ghigliottina per farmi indovinare).
Ho visto altri figliol prodighi tornare a casa per assistere un genitore che non ha più nessun altro su cui contare o semplicemente per non dover mai più sentirsi così lontani. Ho pianto per altri che non sono riusciti a tornare in tempo per salutare la mamma e il papà. Ne ho visti tanti chiudere le loro case da adulti per andare a telelavorare dalla cameretta della loro infanzia, chiedendosi ogni giorno quale sia, adesso, il loro posto nel mondo.
Io cerco ogni giorno di trovare il mio posto qui, nella mia piccola famiglia e cerco conforto nelle piccole cose certe (poche a parte i pidocchi, che ovviamente non siamo riusciti a levarci dai coglioni manco stavolta) proprio come fanno i bambini. E non mi vergogno più se, qualche notte, lascio la luce accesa.
The fair distance. (And the nostalgia for when the problem was lice).
When schools were closed in March, a mum in the class chat sent a message that went something like this: at least we're going to be able to get rid of lice finally.
At the time it seemed like a revolutionary prospect of change.
Today, when I watch movies where people walk into a bar without a facemask, I start screaming at the television like my centennial aunt: come on!!!! Where the fuck are you going? So I guess lice are the least of my thoughts.
In the last 25 years away from mum and dad, I have always been pleased of having put the fair distance between us.
To be at a fair distance means that a 2-hour flight takes me back into my mum’s arms and back to dad, who still tells me “what beautiful eyes you have, daughter”. That brings my daughters back to their aunt Au, that brings my hypochondria back to my trusted GP in Avellino.
In the last 12 months, I have only seen my family for 14 beautiful days spent by the sea, under the shade of century-old fragrant pines. Two weeks of freedom in an ordinary place that now seems to me the most beautiful place in the world.
Distance has become one of the most unfair things and the arrogance of the expat-who-has-understood-everything-about-life by going to live in Barcelona has turned into a childhood regression in which Avellino is the promised land, watching evening TV game shows with mum is the most anticipated moment of the day, and taking a ride in the car with my sister and complaining that there is nothing to do is the greatest fun I can remember.
After a life spent thinking to be a citizen of the world, I realised I’m a citizen of Avellino and that Im still a child who would sleep with the light on if it were socially acceptable at 42.
But I waited, and meanwhile I have learned that I can wait.
(And Mum learned to send me pictures of the TV game show questions to keep me in training)
I have seen other prodigal sons return home to assist a parent who no longer has anyone else to rely on or simply to never have to feel so far away again. I’ve cried for those that didn’t make it on time to say the last goodbye to their mothers and fathers. I have seen many lock their homes as adults to remote work from their childhood bedroom, wondering every day what their place in the world is now.
I try to find my place every day here, in my little family, and I look for solace in certain little things (few apart from lice, which we obviously couldn't get rid of) just like children do. And I am no longer ashamed if, some nights, I leave the light on.